C’è un’esperienza che, per quanto cerchiamo di evitarla, ci accompagna inesorabilmente per tutta la vita. Come una persona che, di tanto in tanto, si mette al nostro fianco, poi decide di allontanarsi ma finisce per tornare sempre, dopo un po’ di tempo. E spesso non va via senza aver lasciato ferite e cicatrici, come a volerci ricordare della sua ineluttabile presenza. Eppure questa presenza è tanto odiata quanto necessaria alla nostra vita. In una delle sue prime opere, Kafka scriveva che “la sofferenza è l’elemento positivo di questo mondo, è anzi l’unico legame fra questo mondo e il positivo”. Al di là dell’interpretazione data a queste parole dallo scrittore boemo, è difficile non leggere in esse una profonda verità: il dolore ci aiuta a comprendere il valore delle cose. La sofferenza fa parte della vita come l’errore fa parte dell’apprendimento. Non esiste apprendimento che non faccia esperienza degli errori. Allo stesso modo, non esiste vita nella quale non si sperimenti il dolore. Un’esperienza che può diventare salutare quando il dolore ci spoglia di tutto fino a farci capire meglio ciò che nella vita conta veramente. E’ ciò che traspare, per esempio, dalle parole di Nadia Toffa, scomparsa recentemente a causa di un tumore: «Io all’inizio mi chiedevo: “Perché proprio a me?”. Perché scusa, chi è che vuole il cancro? […] Però poi mi sono detta: “Perché non a me?”. Perchè non a me?”. È pieno di bambini che muoiono il primo giorno di vita! Pensa a quei genitori. Questo è il mio dolore, io me lo devo portare, è il mio fardello. Il Signore mi ha dato una sfida che io posso magari non vincere, ma l’importante è mettercela tutta, combattere, sempre […] Perché è la mia sfida. Pensa a una ragazzina di quattordici anni che si lascia con il fidanzatino. Soffre più lei o io? È commisurato. O pensa a un papà che perde il lavoro, a quarant’anni. È una sfida, si può trovare anche del bene.» Ricordo ancora la domanda di un ragazzo che, durante un incontro in un liceo palermitano, mi chiese come fare per non soffrire nella vita. Gli risposi, forse deludendolo un po’, con la più ovvia delle affermazioni: c’è un solo modo per non soffrire nella vita, non vivere affatto. Il dolore si affaccia continuamente nella nostra esistenza. Si presenta innanzitutto attraverso i nostri limiti personali, che mai vorremmo riconoscere, a maggior ragione davanti agli altri. E che invece, paradossalmente, ci rendono più umani proprio agli occhi di chi ci ama. I nostri limiti sono il lasciapassare necessario perché possiamo entrare in relazione con gli altri. Pensiamoci bene: saremmo capaci di comprendere i limiti e le fragilità di chi abbiamo di fronte se non provassimo sulla nostra pelle che cosa significa non essere perfetti? La sofferenza si presenta poi nella malattia. A volte in modo crudele, con un dolore che devasta il corpo e lo spirito, lasciando ferite e cicatrici indelebili che segnano la nostra vita, che modellano la nostra esistenza e il nostro modo di essere. La sofferenza può farci diventare cinici e incattiviti, può deformare la nostra esistenza. Ma se sappiamo prendere il buono che c’è in essa, possiamo acquisire quelle forme smussate e levigate che rendono la nostra vita un prezioso tesoro per noi e per gli altri, fino a renderci attraenti ai loro occhi. La Toffa ne è stata un esempio. Io stesso, che non ho mai mostrato particolare interesse per questa donna, come migliaia di altre persone sono rimasto molto colpito dal suo modo di reagire alla malattia, fino a commuovermi alla notizia della sua morte. La sofferenza me l’ha resa vicina e ha sviluppato un’empatia che non avrei mai immaginato fino a qualche mese fa. Si è lasciata trasformare dal dolore, ha permesso che esso la facesse diventare la persona che è entrata nel cuore di centinaia di migliaia di italiani. Le fragilità e i limiti della malattia l’hanno resa più bella. Come quei vasi che, dopo essersi rotti in più pezzi, vengono riparati con una lega d’oro che li fa diventare ancora più belli di prima. Forse se provassimo ad applicare questa tecnica di restauro giapponese, il Kintsugi, alle nostre ferite, esse smetterebbero di essere pesanti fardelli per trasformarsi in preziosi trofei. Il dolore, infine, è un compagno onnipresente delle nostre relazioni. Anzi, a volte la sofferenza è proprio il segno dell’importanza che diamo ad una relazione. Non è facile comprenderne il motivo ma c’è qualcosa in noi che, intuitivamente, ci fa cogliere lo stretto legame che esiste tra amore, sofferenza e felicità. È uno dei misteri più grandi della vita. Nella relazione noi non solo facciamo esperienza dei nostri limiti – ne abbiamo parlato prima – ma ci confrontiamo inevitabilmente anche con i limiti dell’altro. E questa esperienza, se vissuta bene, ci offre la possibilità di entrare in una dimensione che davvero può aprirci le porte del cuore alla felicità, proprio perché permette al cuore di arrivare a quell’infinito che desidera continuamente. Se ci pensiamo bene, l’infinito ci si presenta proprio attraverso quelle crepe che sono i limiti degli altri. Sono le loro fragilità che ci permettono di cogliere tutta la profondità dell’infinito. Se le persone con cui entriamo in relazione non manifestassero le loro debolezze noi non capiremmo mai fino in fondo la grandezza di ciò a cui aspiriamo. Sarebbe come se ci fosse un muro compatto, spesso, impenetrabile, a frapporsi tra noi e quello che veramente può soddisfare i desideri più profondi del nostro cuore. Se gli altri non avessero limiti e fragilità noi ridurremmo la grandezza incommensurabile dell’infinito alla piccolezza di chi abbiamo davanti. Per questo la felicità passa sempre dal rapporto con gli altri, soprattutto con coloro che per noi sono più significativi. Nonostante i loro difetti, anzi, grazie ai loro difetti noi possiamo andare oltre. Fare esperienza dell’imperfezione ci rende più sensibili nei confronti della perfezione, di cui avvertiamo la mancanza. É il paradosso della sete, che rende l’acqua tanto più desiderabile quanto più intensa – e dolorosa – é la […]
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